8 marzo 2015 — «Medieval songs» — Ora in libreria!


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Medieval songs

Medieval songs

– Davide Gorga –

Adesso in libreria



♦ Prefazione ♦


Poesie e “tele” dipinte al crepuscolo, l’ora dedicata alla riflessione.
La lettura di questi componimenti richiede silenzio, quiete, e la disponibilità ad aprire mente e anima accettando ciò che riceveremo senza riserve. Accettare, dunque, con la lucida calma del saggio, è la chiave di lettura. Mentre leggiamo, un flusso di immagini, fuggevoli come ricordi, ci sorgono innanzi. Visioni, talvolta difficili da legare, confuse come in sogno. Eppure, sul fondo si percepisce dell’altro; una guida, un direttore d’orchestra che suscita le visioni, una voce che mormora “Non temere, lascia che sia, va bene così. Osserva.”

È ciò che fa il poeta. In ciascun componimento, egli si pone di fronte allo specchio dell’anima e osserva, a mente aperta, pronto ad accogliere ciò che vedrà. Apre la sua anima, ed ecco gli appare il suo tempo. Ricordi, sensazioni, speranze, illusioni, dolore, solitudine, allegria. Egli si inoltra in boschi oscuri e incantati. È la Natura a fare da mediatrice tra l’uomo (“cacciatore in scintille”, “bambino in corsa”) e il suo io più vero – la Verità? Il segreto della gioia? Una Natura popolata da spiriti, elfi e voci nel vento si risveglia solo al crepuscolo. Sono entità benevole, spiriti guida che sussurrano e danno inizio all’incantesimo. Essi mostrano al viandante il suo tempo e il suo essere. Un susseguirsi confuso d’estati, inverni, autunni, e un intreccio di luci che risalta violento e doloroso sul telo di tenebre – qual è l’essenza umana: una meravigliosa mescolanza di luci, il cui bagliore non sarebbe tanto splendido non fosse per il manto buio in cui gemmano e crescono. Il buio è dunque fondamentale. Non vi è guerra, non esistono conflitti né meschinità nel tessuto delle cose, e ogni dolore trova posto nell’ordine meraviglioso di una Natura che irraggia amore, e che tende le sue braccia a cullare ogni sua creatura. Il male, come forza dominante e distruttiva, esiste solo nella mente confusa, e non trova posto nell’universo qui narrato. Persino l’inverno sorride poiché, come ogni prova e ogni forma di sofferenza, non uccide ma trascende.

Il tema portante è il viaggio.
Il pellegrino – il poeta, e noi con lui – percorre una strada senza fine, un percorso che simboleggia la sua (nostra) vita, e la sua (nostra!) lunga e difficile riscoperta di sé stesso. Egli viaggia solo, accogliendo i dolori e le meraviglie che conosce lungo la strada. Unicamente la solitudine gli consente di assorbire e meditare le nuove esperienze con la necessaria profondità. È una solitudine solida, concreta, paradossalmente una compagna di viaggio. Un pensiero tuttavia lo accompagna e gli dà coraggio: il ritorno. Una casa, un focolare, gli affetti che lo attendono. Un luogo – reale o metafisico – dove riposare. Una nicchia dove abbandonarsi alla quiete, dove smettere di affannarsi alla ricerca di sé stesso, assaporando infine ciò che ha scoperto nel suo peregrinare. Una sosta in un cammino che tuttavia non può e non deve interrompersi. Il ritorno è un pensiero che fa capolino nella mente del pellegrino, ma non è una meta né tanto meno il vissuto quotidiano. È un ideale che lo sostiene, una promessa di sollievo e ristoro, poiché non vi è quiete nel cammino, solo un continuo divenire della via e del viandante (“A te che sei […] l’incanto il riso il pianto/ dei miei giorni grigi […]/ nel cammino infinito/ volgerò lo sguardo.”)
Il viaggio è una “corda sospesa sul mare (che) incatena i sogni”. Il cammino del viandante si snoda in due dimensioni: il reale e il metafisico. Il paesaggio (il reale) scivola veloce, lungo distanze infinite. Il pellegrino coglie solo frammenti d’immagini e scorci di vita, e le sue sensazioni sono spesso confuse. Col tempo, fondendosi coi suoi ricordi e coi suoi sogni, queste prendono infine consistenza e forma. Egli riesce a comprendere le proprie esperienze solo rileggendole nel tessuto della sua memoria (il metafisico), riesaminandole, rivivendole nell’anima mentre prosegue il suo cammino.
Il cammino trasforma e rivela. Mette alla prova poiché è imprevedibile, talvolta doloroso, difficile, solitario. Il viaggio ferisce il pellegrino poiché richiede da lui umiltà, tenacia, e che ad ogni passo egli faccia seguire un passo ancora. Il viaggio esige da lui semplicità, silenzio e solitudine, che gli consentono di meditare, e quindi di conoscere e trascendere sé stesso (“le mie ferite sono cosparse di solitudine, in questo canto alto di cirro soffro e cammino”). Tutto ciò è necessario e buono, il viandante lo sa: è il Maestro Nero, che lo accompagna, invisibile, alle spalle, osservandolo mentre egli avanza, sfinito, in lacrime, o nello stupore di qualche nuova meraviglia. Ma non vi è crudeltà alcuna. Il Maestro è Nero, ma è pur sempre un Maestro, e coi sui metodi duri vuole il bene dell’allievo.

Nessuno può affermare di conoscere il valore di qualcosa finché non ne sperimenta la mancanza. Come in una foto in bianco e nero si colgono dettagli che sfuggono nella vivace tempesta dei colori, così accade che solo nella mancanza di luce (amicizia, amore, salute, speranza… e anche fiori, musica, risate, cieli blu…) si avverta quanto dolorosamente essa sia preziosa e necessaria. In questo contesto, i violenti contrasti di luci e ombre sperimentati dal viandante (“fiamma fredda e ardente”, “rilucente come scrigno/d’alabastro e quarzo/nella notte più nera”, “scala di marmo bianco/nella notte nera”) acquistano un potere immenso nel suo processo di trasformazione. Gli consentono di toccare l’essenza più vera di ciò che ha perso o che gli è lontano. Ne assapora la bellezza struggente e capisce, dopo lungo travaglio, che cos’è la vera gioia. È forse questo il sogno, la speranza, la misteriosa forza che muove i suoi passi?
Al flauto mistico
seguirò la via

Il sentiero dei sogni
si snoda lontano,
oltrepassa orizzonti,
prati incisi dal vento


Perché il viandante compie questo cammino? Cosa lo spinge?
Egli non lo sa. Un istinto muove i suoi passi, un’inquietudine, un bisogno bruciante di andare avanti, di cercare… cosa esattamente? Il fascino oscuro della selva interiore lo spaventa e lo attrae. Egli sente che deve andare avanti, nel sole e nel gelo. Non è una passeggiata, è un’avventura difficile e animata dall’inquietudine e dal tormento – e da una gioia che sorge e cresce sottile e luminosa. È un cammino che non ha meta, poiché non vi è un fine ultimo, e il viaggio acquista valore solo in sé stesso.
Fermati, è inutile […]
Non chiedermelo, io sono già arrivato. In questa notte di luna, il viaggio è la mia meta.


La strada è la scia di un percorso che sorge un passo alla volta. Nulla è prestabilito. È una strada fatta di esperienze, emozioni, visioni. Lungo il cammino il viandante vede molte cose. Gli appare il suo tempo, un lungo nastro le cui estremità si perdono lontano, in un passato colmo di ricordi e in un futuro fatto di confuse speranze;

mille rivoli danzanti nella melodia del tempo immobile, sorriso del cielo e delle stelle, viso del sole, esile sentiero di luce lunare, mistica danza nel nero dei fuochi della notte

Il tempo è dunque la coordinata più importante del suo pellegrinaggio, mentre lo spazio non è reale o è semplicemente secondario. Il suo tempo appare come una mescolanza di stagioni, di albe e tramonti, di stagioni della vita. Le stagioni del passato si intrecciano nel loro rapido ripresentarsi al ricordo (“primavera di un tempo,/ inverno di stelle,/ estati di boschi e d’infanzia”). È il tempo del viandante a segnarne il cammino. Egli lo osserva e ne trae insegnamento.

Tra le onde del tempo
il mare immobile
ricopre le spalle
come un manto rosso
abbracciato all’eterno.


Nel suo cammino, il viandante medita spesso sull’In­fanzia, che gli appare come una visione dolce ma lontana. L’Infanzia precede il fatale insediarsi dell’uomo nel Mondo, con le sue restrizioni e le conseguenti falsità. Poi viene l’Inquietudine, quindi l’inizio del lungo Peregrinare. L’In­fanzia è dentro di lui, ma dorme poiché egli l’ha rinnegata. È un ideale nostalgico, intravisto da lui nel suo tormento, la speranza di un ritorno allo stato puro e libero dell’infante. Il viandante agogna a quella beatitudine (“il lampo dell’infanzia lungo la strada odorosa di lana e calore e vetri appannati nel ritorno”). Il viaggio, staccando pezzo a pezzo la crosta di cui il Mondo gli ha rivestito l’anima, lo riavvicina all’Infanzia.

Abbraccia la luce con le mani d’incanto, nelle notti sfolgoranti […] là dove il tempo ha gli accenti innocenti della purezza anelata delle voci immortali.

Il pellegrino viaggia e medita. Il suo è un atteggiamento di attesa e accoglienza. Egli lascia che le visioni vengano a lui, senza forzarle né generarle, accoglie tutto ciò che gli viene proposto e lo medita. Artefice di questo è la Natura che lo circonda (“Come schegge di vento in foglie intrecciate, cadono petali di galaverna in primavera”), una Natura dotata di volti, mani, voci, una Natura animata, gioiosa, che lo osserva incuriosita, lo sfiora, gli sussurra all’orecchio. I suoi spiriti gli parlano, lo chiamano, lo guidano, lo accompagnano (“voce che scintilla/ nel sentiero d’autunno,/ canto d’acqua sorgiva”). Ciò avviene soprattutto al crepuscolo. Dopo il tramonto il suo cammino continua – ma è sogno o veglia? Il sonno spegne la razionalità lasciando posto a sogno e magia (“nel velluto della notte riaperta al cantico interiore”). Il suo viaggio entra in una dimensione nuova: il reame degli spiriti della Natura. La strada si inoltra nel bosco, che di notte si risveglia e si popola di spiriti che sussurrano. Ma il pellegrino non ne comprende il linguaggio poiché essi parlano una lingua arcana, misteriosa, fatta di simboli e immagini. Da tempo egli non ascolta la Natura, e gli è difficile comprenderla. Ma perché gli parla? Perché egli è parte della Natura, figlio del bosco, del cielo e del mare. L’universo lo abbraccia e condivide con lui le sue immense energie. Così il pellegrino trascende infine sé stesso e prova una gioia sconfinata. Egli glorifica la Natura viva (angeli, elfi, il Supremo, la voce nel vento…) che lo accompagna senza forzarne i passi. Egli glorifica il creato e trae gioia dal suo dolore (“L’ombra che cade sul bordo del cielo”).

Il viaggio è pervaso da un’aura positiva. Non vi è mai negatività o pessimismo. Il pellegrino accetta il dolore perché lo percepisce come benevolo, come elemento fondamentale del tessuto vivente. In lui c’è speranza, e un’attesa positiva e allegra. Lungo il cammino il pellegrino sosta e scambia racconti di viaggio con coloro che incontra. Allora si fa musica, si ride, si canta, si danza.

il vino, di mano in mano intorno al fuoco
tra i viandanti fermi all’eco dei miei passi,
sul sentiero, e danze e voci e venti
di sorrisi


La gioia delle feste dei viandanti brilla di fanciullezza, e di quell’allegria che sembrava persa e lontana. Bastano un falò, un flauto, e la compagnia di altri viandanti, e la notte si accende di lanterne (“troppe stelle da cantare”). Infine il pellegrino riprende la strada, più leggero, più gioioso. Sa che non è mai realmente solo.

nella trasparenza di un attimo eterno vedere […] l’eterno bambino dentro di noi — l’uomo nel suo viaggio, il vecchio che insegna

Il viaggio continua e “ci” porta nuove esperienze, affanni, meraviglie. Li porta a “noi” poiché, in effetti, siamo noi stessi, tramite le parole del poeta, a compiere il viaggio. Egli fa da tramite tra noi e la Natura, tra ciò che siamo divenuti nel Mondo e il nostro io più vero – la nostra Infanzia. I suoi versi ci proiettano lungo il sentiero. Udiamo chiaramente il fruscio delle foglie, il crepitio delle fiamme, il sussurro del vento – e l’eco dei nostri passi sul sentiero del bosco. Cosa apprenderemo da questo viaggio? Cosa vedremo in noi stessi?

Fenice rinascente come un eterno accordo, ho abbracciato nella voce fragrante e calda l’eternità.

Stefania Vaga





Sanremonews del 16 marzo 2015

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